Kitchen

Si ritorna al Giappone, con un’autrice che funge un po’ da trait d’union tra le due facce di questo blog. Mi riferisco a Banana Yoshimoto.

Banana, pseudonimo di Mahoko Yoshimoto, è nata a Tokyo nel 1964. Amata dal pubblico ma spesso criticata dagli esperti, questa autrice ci regala romanzi dall’atmosfera sognante, talvolta quasi distaccata dalla realtà. Lo stile è inconfondibile, e più volte è stato paragonato, per i personaggi e i dialoghi, a quello degli shoujo manga giapponesi, i fumetti per ragazze.
Il suo romanzo d’esordio, Kitchen, ha riscosso molto successo, specie in Italia, prima lingua in cui è stato tradotto.

Trama:
Mikage Sakurai è una ragazza universitaria, cresciuta coi nonni a causa della morte prematura dei genitori quando era bambina. Quando anche la nonna, ultima sua parente rimasta in vita e suo punto di riferimento, muore. Mikage si ritrova completamente sola. Per giorni si rinchiude in uno stato vegetativo in casa, vivendo in cucina, il suo posto preferito, ma senza nutrirsi. Finchè un compagno di università, Yuichi Tanabe, le propone di traslocare a casa sua, dove vive insieme alla madre Eriko. Non appena entra nella loro casa, la ragazza si innamora subito della cucina, ambiente unico insieme al soggiorno. Ampia, organizzata, piena di utensili di ottima qualità, la cucina riveste un ruolo molto importante nella decisione di Mikage di rimanere a vivere in quell’appartamento.
Insieme a questa nuova famiglia Mikage ritorna a mangiare, a vivere, a fare scelte, a costruirsi un futuro.

La famiglia ha un ruolo molto importante in questo romanzo. Mostra le sue molteplici sfaccettature, con un unico grande punto comune: l’amore. Eriko è l’esemplificazione del fatto che non è poi così importante l’identità di genere, che per crescere un figlio basta amarlo sinceramente. I giovani descritti nelle pagine del libro sono spaesati, uomini e donne alla deriva che non hanno ancora piena coscienza di sé e di ciò che vogliono essere. In fondo più vicini allo stato dei giovani d’oggi, sommersi dalle troppe possibilità e intrappolati dalla propria indecisione.

La morte è praticamente onnipresente in tutto il libro. I personaggi la affrontano tutti in modo diverso, ma ciò che li accomuna è il senso di vuoto, la non presenza della persona scomparsa che diventa voragine incolmabile e allo stesso tempo presenza ingombrante, capace di avvicinare le persone che la conoscevano o di allontanarle alla stessa maniera.

I dialoghi sono interessanti, talvolta ambigui, velati di amara ironia, ricchi di ingredienti ben dosati come un piatto di alta cucina. Condisce il tutto un racconto finale, presente in quasi tutte le versioni stampate, “Moonlight Shadows”. Cambia l’ambientazione, cambiano i personaggi, ma rimane lo stile di Banana. Anche qui l’argomento fondante è l’elaborazione della morte, in particolare su come una persona scomparsa possa ancora vincolare chi si è lasciata indietro, il tutto in un mix tra realtà e sovrannaturale appena intuibile.

Personalmente, finito di leggere questo libro, mi sono sentita un po’ confusa. Capire dove voleva andare a parare non è immediato, nonostante la scrittura schietta, senza troppi giri di parole. Mi sono sentita come se i miei pensieri fossero un po’ ovattati, ancora confusi dagli strani avvenimenti del libro. Poi semplicemente ho rielaborato quanto letto per farne delle considerazioni su me stessa, sul mio modo di pensare, di vivere. E ancora sui pregiudizi, sulla modernità, sul significato della parola diverso.
Magari questo libro avrà un’interpretazione diversa per ogni persona che lo leggerà, piacerà, non piacerà, lascerà indifferenti, ma chissà, forse riuscirà a stuzzicare il pensiero, anche solo un po’, quel tanto che basta per un’intuizione nuova.

Mi posso infine limitare a un giudizio laconico, perché altro non saprei dire: strano ma piacevole.

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