Still Alice, Lisa Genova

Spesso mi capita di voler andare al cinema per vedere questo o quel film tratto da un libro che mi ha particolarmente appassionato, col rischio di rimanerne delusa. Frequentemente infatti la pellicola non raggiunge l’emozione e la complessità del libro, lasciando l’amaro in bocca agli appassionati di quest’ultimo. Tuttavia ci sono anche film che reggono con fierezza il confronto, e talvolta lo superano.

L’approccio a Still Alice è avvenuto in maniera opposta al mio solito. Avevo sentito parlare in molte occasioni del film, grazie al quale la bravissima Julianne Moore si è meritata l’Oscar come migliore attrice, e programmavo da tempo di vederlo (purtroppo è ancora lì che mi aspetta, accidenti). Un giorno gironzolando in libreria mi sono accorta di una copertina che recitava:  “Still Alice”, e sotto in grafia più ridotta “Perdersi”. E così ho scoperto che dietro alla pellicola c’era un romanzo, delle parole che mi stavano aspettando. Ed e’ stato amore a prima vista.



Venire a contatto con un libro come questo lascia per forza di cose una traccia, una scalfittura nel cuore e nella mente del lettore. L’argomento è delicato, ma trattato con estrema cura e con quel tocco di poesia che bilancia le spiegazioni tecniche sulla malattia.
La protagonista è infatti una scienziata, e in quanto scienziata si approccia alla propria croce, dopo iniziale incredulità e disperazione, con spirito analitico.
Alice è una donna forte, intelligente, caparbia, che ha sempre amato il proprio lavoro e la propria indipendenza, e il pensiero che a poco a poco li perderà entrambi la consuma. Le prime avvisaglie della malattia sono episodi brevi e di poco conto, tanto da poter essere scambiati per stress –una parola dimenticata, il non ricordare il nome di un trattato- eppure quando la donna si ritrova a pochi isolati da casa, confusa e spaesata come se fosse persa in una metropoli straniera, comincia a capire che qualcosa non va. La diagnosi di Alzheimer precoce, versione rara ed ereditaria, è uno shock.
A mano a mano che ci si immerge nella narrazione si entra in contatto con il mondo di Alice e con la sua famiglia: il marito John, anch’esso scienziato, che nonostante spesso sia assorbito dalle sue ricerche di lavoro, ama la moglie profondamente, e in nome di questo amore se ne prende cura e agisce cercando di prendere decisioni che la stessa Alice, la vera Alice, avrebbe approvato. Mi piace la sua figura perché, nonostante talvolta sembri freddo, troppo razionale, si intuisce che tutto ciò che fa è volto a rispettare quello che Alice ha di più caro: la sua mente.
I figli Anna, Tom e Lydia, sono in genere più emotivi, si lasciano guidare dai propri stati d’animo e dalle proprie vite frenetiche. E’ curioso il fatto che la figlia con la quale la donna ha un rapporto più burrascoso, Lydia,  la figlia ribelle che ha scelto in controtendenza con la famiglia di non frequentare l’Università ma di dedicarsi alla recitazione, sia la prima ad accorgersi dei problemi della madre, la più solerte nell’accudirla.
E più Alice fatica a mantenere la lucidità, più il rapporto tra le due evolve, facendo sbocciare punti d’incontro prima ignorati. Ma l’Alzheimer incombe inesorabile, e il ricongiungimento tra madre e figlia è adombrato dalla sempre più evidente difficoltà di Alice a ricordare persino i propri familiari.
Guidati dalle stesse parole di Alice assistiamo al suo graduale ma inesorabile disfacimento, la progressiva perdita di informazioni scandita dalle risposte sempre più vaghe e imprecise a quelle cinque domande che la donna si ripete come un mantra ogni mattina. Apprendiamo la sua volontà di non essere un peso per la famiglia, di come la sua se stessa sana non abbia intenzione di accettare una vita di smarrimento, e al contrario di come la sua versione malata impari a gioire anche delle più piccole cose, in una sorta di ritorno alle origini, una dimensione infantile eppure genuina in cui ogni avvenimento sembra giusto, perfetto.
Mi ha colpito in particolare un ricordo di Alice bambina, insieme alla madre:

Si ricordava di quella volta, aveva sei o sette anni, che in giardino si era messa a piangere per la sorte delle farfalle dopo aver scoperto che vivevano solo per pochi giorni.
Sua madre l’aveva consolata spiegandole che per le farfalle non era triste e che solo perché la loro vita era breve non significava che fosse tragica. Guardandole svolazzare sotto il sole caldo tra le margherite del giardino, sua madre le aveva detto: “Vedi, hanno una vita meravigliosa”.

Alice si identifica con quelle farfalle. La sua vita fino a quel momento è stata meravigliosa, colma di gratificazioni e di amore, e sebbene nulla possa alleviare il dolore di perdere tutto ciò che la malattia le sta portando via, la donna capisce di non avere rimpianti, di aver vissuto pienamente fino a quel momento. Concetto che esprime chiaramente nella cartella “Farfalla” sul suo computer, che custodisce un contenuto dimenticato ma agghiacciante, l’unica soluzione che la sua mente razionale ha trovato a un problema insormontabile.
C’è tanto da imparare dalle pagine di questo libro, tanto che non è facile tradurre in parole tutto ciò che riesce a comunicare, tutte le emozioni  che trasmette. E’ un groviglio di pensieri e riflessioni strettamente interconnesse tra loro, come sinapsi nel sistema nervoso, una marea dominata da correnti opposte che lasciano il lettore tramortito e confuso. Esattamente come la malattia.
Una grande tematica, comune a tante tragedie, è il non dare mai nulla per scontato. Chi ha avuto un parente affetto da una qualsiasi malattia degenerativa può capirlo, ciò che c’è oggi potrebbe non esserci domani, ogni momento è una gemma preziosa, da vivere con entusiasmo, perché potrebbe non tornare. E chissà che da questi momenti non possa nascere qualcosa di positivo, un rapporto riscoperto, una rinnovata gioia di vivere, la riscoperta della semplicità e degli affetti.

Concludo con parte del discorso tenuto da Alice in occasione della conferenza annuale dell’Alzheimer’s Association, che suona come un commiato dalla sua vita precedente e dalla sua carriera, ma anche come un ultimo disperato tentativo di rimanere se stessa, ancora Alice, nonostante la sua mente si stia perdendo. E un appello, nei confronti di coloro che hanno la possibilità di non dimenticare, affinchè non chiudano gli occhi di fronte a questa malattia ma continuino a cercare, a studiare, a sperare in una soluzione, un miglioramento, un passo in avanti.


I miei ieri stanno scomparendo, i miei domani sono incerti, e allora per cosa vivo? Vivo giorno per giorno. Vivo nel presente. Uno di questi domani dimenticherò di essere stata qui davanti a voi a tenere questo discorso. Ma solo perché presto me ne dimenticherò non vuol dire che l’oggi non conta.

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