Molto forte, incredibilmente vicino, Jonathan Safran Foer

Originale, graffiante, profondo. Jonathan Safran Foer esce dalle convenzioni della narrazione per raccontare a modo suo un evento che ha sconvolto l’America e il mondo intero in epoca moderna, ma che soprattutto ha cambiato la vita di migliaia di persone: 11 settembre 2001, la caduta delle torri gemelle.



La morte di un genitore non è mai un evento facile da affrontare. Ancor meno se essa avviene prematuramente e in modo improvviso, inspiegabile. La morte del padre, al quale Oskar era profondamente legato, lascia in lui profonde ferite che non riesce a rimarginare. Non lo accetta, il giovane Oskar, non riesce ad accettare che suo padre lo abbia abbandonato così, da un momento all’altro, senza un ti voglio bene, senza lasciargli istruzioni per come andare avanti, come vivere la propria vita. Lui che era un uomo così saggio, così originale e pieno di curiosità, adesso non può più rispondere alle innumerevoli domande che il bimbo si pone.

"Finisce tante volte che piango, di solito in privato. Trovo difficilissimo andare a scuola. E poi, non riesco a restare a dormire a casa degli amici, perché mi viene il panico a stare lontano dalla mamma. Non sono molto buono con la gente" "Cosa credi che ti stia succedendo?" "Che sento troppo, ecco che succede" "Ma tu credi possibile che una persona senta troppo? Non è che sente solo nel modo sbagliato?" " Il mio dentro non corrisponde al mio fuori" "Credi esista qualcuno con il dentro che corrisponde al fuori?" "Non lo so, sono solo io" "Forse la personalità è proprio questo: la differenza tra il dentro e il fuori" "Ma per me è peggio" "Temo che tutti credano che per loro sia peggio" "Probabile. Ma per me è peggio davvero."

E’ per riempire questo spaventoso vuoto che Oskar decide di imbarcarsi nell’impresa titanica di cercare tutti i Black della città di New York, appuntando minuziosamente ogni indirizzo in una lista sterminata. Egli spera, prima o poi, di ritrovare il padrone della chiave che ha trovato tra le cose del padre, dentro un vaso. Spera che, una volta capito quale sia il nesso tra quell’oggetto e il padre, la caccia al tesoro lo porti a scoprire un qualche messaggio segreto, anche solo poche parole, che gli facciano sentire il suo papà vicino a lui ancora per un po’.

Ma Oskar non è l’unico narratore, in questo romanzo ricco di emozioni. Altri due personaggi scrivono le loro memorie. Un uomo che non può parlare, che racconta la sua vita passata, la guerra, l’amore, la fuga, e una donna, che scrive una lunga lettera al nipote, cercando di infondere in quelle parole tutto l’amore di cui è capace.

Tre personaggi inestricabilmente legati tra loro, che amano, soffrono, vivono, scappano e tornano. Inizialmente il passaggio da uno all’altro è brusco, il lettore è spiazzato, non capisce dove voglia andare a parare la storia, che sembra prendere una piega totalmente diversa da prima. Poi, pagina dopo pagina, i pezzi del puzzle si rincastrano, nasce la comprensione e lo stupore. Il registro cambia passando da un narratore all’altro, uno più frettoloso, concitato, travolgente, l’altra malinconica e passionale, il terzo a tratti telegrafico e a tratti turbolento.

L’autore però decide di conferire un aspetto comune ai suoi personaggi:  il loro raccontare è un flusso di pensieri, come un torrente agitato che scorre giù dalla montagna, increspato da ciottoli appuntiti, rami e fogliame. Si passa da un pensiero a un altro con collegamenti spesso inusuali, difficili. La punteggiatura è vituperata, derisa, utilizzata in modo giocoso, le parole diventano mattoncini con cui costruire un muro senza regole. Spazi multipli, frasi lunghissime spezzate solo da qualche virgola, anche là dove la narrazione richiederebbe una bella pausa per prendere fiato. E poi ancora, una struttura insolita, pagine bianche, pagine con solo una parola o una frase, come i tanti quaderni di parole dell’uomo che non parla. Pagine scritte talmente fitte che non possono essere decifrate, pagine di numeri o di parole ripetute.

Stranamente un mix così originale non risulta pesante, affatto. Anzi, le pagine scorrono una dietro l’altra, si divorano insaziabilmente. L’autore è abile nel catalizzare l’attenzione di chi legge tramite piccoli indizi lasciati qua e là in modo apparentemente casuale, mezze frasi, dettagli che aiutino a ricostruire la verità e le connessioni tra i personaggi.

Oskar durante la sua ricerca viene a contatto con tantissime persone diverse, uomini, donne, ragazzi e anziani. Da essi impara, con essi ride, soffre, si arrabbia. Con alcuni litiga, con altri stringe amicizia.
A volte racconta di suo papà, e di che straordinaria persona fosse. Lo descrive come un uomo fuori dal comune, curioso verso la scienza, acuto. Certi dialoghi con suo padre mi sono rimasti nel cuore.

"Cosa succederebbe se un aereo ti lasciasse al centro del deserto del Sahara, e tu raccogliessi un  singolo granello di sabbia con le pinzette e lo spostassi di un millimetro?" Ho risposto "probabilmente morirei disidratato". E lui "No intendo solo in quel momento, quando sposti il granello. Cosa vorrebbe dire?" "Non lo so. Cosa?"   […] "Significherebbe che hai cambiato il Sahara"
"Se non l'avessi fatto, la storia dell'uomo sarebbe andata in un modo…" "Si?" "Ma tu lo hai fatto, e dunque…?" Mi sono alzato in piedi sul letto, ho puntato le dita verso le finte stelle e ho gridato "Ho cambiato il corso della storia dell'uomo!"

Passo dopo passo, incontro dopo incontro, Oskar cerca di far chiarezza con se stesso, di esternare i suoi dolori e chiedere aiuto, e finalmente riconoscere che le persone intorno a lui, sua madre, sua nonna, non gli sono nemiche ma lo amano profondamente, e sarebbero disposte a tutto pur di aiutarlo.

Per quanto riguarda “l’uomo che non parla”, il suo ruolo rimane un mistero per buona parte del libro. Inizia raccontando del suo passato, la giovinezza a Dresda, il primo amore, la famiglia, e poi la guerra che si ingoia tutto ciò che c’è di positivo al mondo, comprese le sue parole e le sue emozioni. Dopo la guerra, dopo aver perso tutto, egli rimane un guscio vuoto. Solo più tardi sembra trovare conforto in chi ha sofferto come lui, e instaura una relazione con una donna a cui è volente o nolente legato, ma con la quale traccia delle linee di confine ben precise, che non permettono ai due di essere insieme fino in fondo, separati da troppe “Zone di niente”. Ogni sua parola, scritta su uno degli innumerevoli quaderni che usa per comunicare con le altre persone, esprime quanto la guerra lasci delle cicatrici profonde su chi la subisce, tanto da non permettergli di vivere una vita normale, avere degli affetti. Concetto riassunto perfettamente nel titolo della sua storia: “Perché non sono dove siete voi”.

La lettera della donna ha invece una connotazione diversa. Pur raccontando anch’essa la propria storia passata, ella vuole spiegare, dopo una vita passata a tenersi per sé le emozioni, tutto ciò che ha provato durante la propria vita. Vuole esternare il proprio dolore, le sue esperienze travagliate ma anche tutto l’amore che ha provato e ancora prova per i suoi cari, la famiglia d’origine e quella che ha costruito lei stessa. E’ la lettera di una madre e di una nonna, che nel momento più drammatico della propria vita, la perdita del proprio figlio, trova nelle parole uno sfogo, un modo per esorcizzare l’agonia trasferendola sul foglio. Ella parla con l’esperienza dell’età e la consapevolezza di chi ha visto troppo durante la vita.

Da bambina la mia vita era una musica che suonava sempre più forte. Tutto mi emozionava. Un cane che seguiva uno sconosciuto. Era una sensazione così intensa. Un calendario aperto sul mese sbagliato. Avrei potuto piangerci sopra. E piangevo. Quando finiva il fumo di un camino. Il modo in cui una bottiglia rovesciata si appoggiava sull'orlo della tavola.
Ho passato la vita imparando a sentire di meno.
Sento di meno ogni giorno.
E' la vecchiaia? O qualcosa di peggio?
Non ci si può difendere dalla tristezza senza difendersi dalla felicità.

Ma nonostante le esperienze traumatiche vissute in gioventù, la perdita della famiglia, l’abbandono della propria città, niente l’ha potuta preparare a questo nuovo dolore, inaspettato e insensato. Un dolore a cui forse non c’è modo di sopravvivere, non rimanendo integri, non senza stravolgere completamente la propria vita.

Aerei che vanno contro le torri.
Corpi che cadono.
Aerei che vanno contro le torri.
Le torri che cadono.
Aerei che vanno contro le torri.
Aerei che vanno contro le torri.
Aerei che vanno contro le torri.
Quando non ho più avuto il dovere di essere forte davanti a te sono diventata molto debole. Mi sono stesa a terra, dov'era il mio posto. Ho battuto i pugni sul pavimento. Volevo spezzarmi le mani, ma quando mi hanno fatto troppo male mi sono fermata. Sono stata tanto egoista da non spezzarmi le mani per il mio unico figlio.
Corpi che cadono.
Graffette e nastro.
Non mi sentivo vuota. Avrei voluto sentirmi vuota.
Persone che agitano camicie dalle finestre in alto.
Avrei voluto essere vuota come una brocca rovesciata. Invece ero piena come un sasso.

La voce della donna è quella che più mi è entrata nel cuore. In lei ho percepito la saggezza di una persona temprata dal tempo e dalle difficoltà, e un grande amore per la sua famiglia. La staffilata finale me l’ha inferta la fine della lettera, forse perché è una cosa che anche mia nonna mi disse anni fa:
spesso non diciamo ti voglio bene alle persone a cui vogliamo bene. Pensiamo non sia necessario. Invece lo è, sempre.

In definitiva, un libro variegato, complesso, a suo modo sbalorditivo. Fuori dalle righe, letteralmente.

Per quanto mi riguarda, è promosso su tutta la linea.

Commenti

  1. Ciao! Mi sono appena iscritta con piacere al tuo blog e trovo che posti articoli davvero interessanti. Se ti fa piacere ricambiare il follow, questo è il mio blog: https://lettricedisogni.blogspot.it/

    RispondiElimina

Posta un commento

Post più popolari